TRINCEA (di Vera Puoti)
Sono tornata venerdì da Garbagnate Milanese.
E' in questo classico 'paese non paese' dell'hinterland milanese, fatto di villette e condomini sparpagliati sulla varesina, che sorge, in un vasto e abbandonato parco naturale, l'ospedale Salvini. Fantasma monumentale di vecchie storie di ottocentesco dolore legato alla TBC, questo ex sanatorio piuttosto mal ridotto, in più punti transennato e impercorribile, è dotato di grandi terrazzi su cui per lo più non ci si può affacciare; di lunghi corridoi, di vasti ambienti abbandonati, dove residuano brandelli di arredi non più utilizzati, e di storiche stanze luminose.
Nessuno direbbe, neanche il personale amministrativo dell'ospedale, che qui al terzo piano di un'ala a destra del bar, vive la punta di diamante della risposta sanitaria europea e forse mondiale a una patologia così misconosciuta da non avere ancora ben definiti né nome né classificazione e neppure una vera e propria casistica, per non parlare di riconoscimenti e cure.
In verità il reparto di chirurgia vascolare del Salvini è pur stato definito a livello regionale il polo per la Lombardia della cura delle 'malformazioni vascolari'. Ma l'ignoranza è tale, la burocrazia è tale, che un intervento in questo campo viene considerato, amministrativamente ed economicamente parlando, alla stregua di un intervento di vene varicose.
Le conseguenze sono vistose.
I malati di angiodisplasia, alias malformazioni vascolari congenite, tornano periodicamente in reparto: in genere ogni due o tre mesi, a volte più frequentemente, a volte conoscono tregue di anni, a volte assaporano l'illusione di una guarigione, ma di guarigioni finora non ce ne sono mai state e dopo un periodo più o meno lungo il male è tornato a crescere e martoriare i corpi coraggiosi.
Durante questo 'soggiorno', si sono incontrati Nico, Giovanni, Giuseppe, Davide, Jessica, Giulia, Katia, Marina, Alba, Enrica, Mauro e un paio di 'faccioni'.
Alcuni di loro conoscono l''angio' dalla nascita; per altri, pur essendo una malattia congenita, è stata una sorpresa 'scoppiata' in età adulta. In questa patologia durante lo sviluppo dell'embrione il sistema circolatorio può 'sbagliarsi' e creare tratti in più o in meno o troppo grandi o troppo piccoli. Ma può fare di peggio: può lasciare in una o più zone del corpo, in un qualsiasi organo o distretto delle cellule con l'imput embrionale di accrescersi. Così, queste cellule 'sbagliate', dalla nascita o in un momento dell'adolescenza o persino da adulti, si svegliano e creano ramificazioni di vene in più, o di arterie o di vasi linfatici... magari si collegano tra loro, oppure si infiltrano nei muscoli, negli organi, nelle ossa, nei polmoni...
Mauro è un giovane papà, ha due bambine di 5 anni e di sedici mesi. Lui e la moglie Maria, quasi non conoscono la più piccina, alle prese come sono con ospedali, interventi purtroppo infruttuosi e dolore tanto insopportabile da dover ricorrere alla morfina. Maria ha il bel viso stravolto dallo stress, gli occhi rossi di pianto trattenuto: ' fa la terapia del dolore ' mi dice indicando col mento il marito ' quando le bambine vanno a letto: non si può far vedere, sembra un drogato.'
La vacanza tipo di Mauro e Maria un tempo era, zaino in spalla, il giro della Sardegna in bicicletta... Da poco avevano acquistato un camper: oggi lui non è in grado di far altro che stare disteso sul divano di casa a soffrire. Niente lavoro. Rischia il posto. Lei lavora al Comune di un paese vicinoal confine. Ha chiesto il part-time, almeno come maternità. Ma non l'ha ottenuto.
Non sa più come gestire la situazione. A Mauro, dopo mesi di indagini come problemi di prostata, hanno scoperto una grossa formazione di angiodisplasia arterovenosa. Ma per quanto, a più riprese, abbiano creduto di avergliela eliminata 'seccandola' con le alcolizzazioni, ogni volta, nel giro di pochi giorni, si è ricostituita ...
Nico, con un circuito in zona analoga, ha avuto più fortuna perché sembra si sia chiuso. Ma c'è dell'altro, che va ancora studiato e definito, sempre in zona simile a Mauro.
Il professor Mattassi, il primario, dice: è difficile, devo studiare, non so come arrivarci...
Un altro ragazzo, con problemi sempre in 'zona', è per ora in standby; sono casi rari nel raro: e anche uno degli specialisti più preparati al mondo in materia non sa che fare.
Jessica, Giulia e Alba dormono per una settimana nella stessa stanza. Un mattino alle cinque e mezza le infermiere le scoprono ancora sveglie sul letto di Giulia, che si confrontano storie e referti. Scappano nei propri letti come bambine sorprese a fare una marachella. Jessica è una bruna minuta dall'aspetto orientale. In realtà ha origini centro-americane. Ha uno spirito aristico, crea bigiotteria e applicazioni per calzature. La sua angio è sopra un polso. Sa di Laura, che con la gravidanza ha perso la mano e parte del braccio. Fattori ormonali come una gravidanza, sono molto pericolosi per una donna, perché la patologia si incattivisce. Giulia, che ha una bella bambina, ha fatto ultimamente una marea di alcolizzazioni: ha l'angio a una gamba, che è diventata più lunga dell'altra e si è infiltrata in un'anca. E' sempre sorridente Giulia, gli zigomi alti sormontati da grandi occhi bruni. La sua chiacchiera diretta e senza ornamenti diventa con Nico l'animazione di serate di gioco e pizza nelle stanze del reparto. In questa specie di trincea le infermiere sono affettuose e comprensive con i ragazzi che lottano con le bombe a orologeria che si portano dentro. Solo a fine
settimana vedo Giulia in piedi, sbilenca sulla gamba più corta, allegra, pronta a prendere il treno per casa. Nessun parente ha potuto assistere Jessica e Giulia e devono fare il viaggio da sole. Le accompagniamo alla stazione. Antonio le mette sul vagone e per fortuna c'è lui a sistemare i bagagli: una zoppica con le stampelle l'altra ha un braccio non caricabile. Giulia affida ad Antonio una scorta di Marlboro per Giovanni.
Giovanni è uno spilungone di poche parole, lo sguardo dolce e vagamente impertinente. A vederlo non pensi stia tanto male, ma rischia una gamba. Ha l'angio anche a un rene.
Ogni tanto è crollato per terra.
In sala d'aspetto dove tra un intervento e l'altro le infermiere chiamano pazienti per medicazioni, controlli o ricoveri, conosco uno dei 'faccioni'. Non so come si chiamino. Uno è già ricoverato e non so la sua storia. Di questo signore penso la vicenda possa essere come quella di Paolo, che ho incontrato in un'altra occasione: un trauma ha risvegliato la patologia silente e un lato della faccia si è raddoppiata. Senza gli interventi appropriati la situazione è peggiorata ed ora è anche più difficile risolverla. Così Tonino ha perso la sua vita: il suo lavoro, molti affetti ed amicizie. Non è più se stesso allo specchio.
Questo faccione qui fa tanta tenerezza. Lui esteticamente ormai si accetta: è nato così. Ha trovato Mattassi e Garbagnate su internet, quando il problema estetico, vistoso, ha cominciato ad aggravarsi. Ora anche la lingua è interessata ed ha difficoltà ad esprimersi.
'Vede' mi dice, indicandomi la bocca violacea che sembra un palloncino attorcigliato 'io faccio l'odontotecnico. E' un problema. ' Mi fa notare che non è più in grado di chiudere le labbra: ' quando lavoro devo farlo a capo chino e...la saliva... Spero che Mattassi mi chiuda il buco '. Guardo il suo faccione, gli occhi scuri, quello destro infossato nel gonfiore di fronte e guancia. Quest' uomo non chiede molto!
Anche Davide ha l'angio dalla nascita. A due anni gli hanno piazzato piastre di azoto gelido sulla gambetta e sul piede. Da sveglio.
Ha urlato e urlato. Poi ha fatto capire che lui con quelle vene lì ci viveva benissimo e non ha voluto fare più niente.
Ha portato una scarpa speciale ma poi ha fatto anche calcio. Quando son cominciate le crisi di dolore al ginocchio ha sopportato. Ha ancora sopportato. Poi si è visto che l'angio si è infiltrata nel ginocchio. Ora ha in programma delle alcolizzazioni ( i ragazzi scherzano: sarebbe meglio berlo, l'alcol!) e poi un intervento dell'ortopedico insieme a Mattassi.
Enrica è una delle poche che ha ottenuto il riconoscimento dell'invalidità.
Dato che la malattia non ha ancora un suo posto alla Sanità, di comune in comune, di persona in persona e di caso in caso la questione è affrontata diversamente. Davanti alla sala operatoria, qualche giorno fa la mamma di Marina mi diceva che, dopo 17 interventi, quando alla figlia 'finalmente' era stato amputato il mignolo, si era detta: ora le riconosceranno l'invalidità.
Niente da fare. Il mignolo non ha importanza per la funzionalità della mano. Ma che dietro il mignolo ci sia una patologia che ti costringe a ricoverarti in continuazione e ostacola comunque la funzionalità del tuo braccio e della tua mano e ti riempie di dolore...?
Enrica mi sembra normalissima: jeans,stivali, una selva di ricciolini neri, acuti occhi azzurri, vivace, attiva...cos'ha Enrica?
Enrica vive con sulla pelle un apparecchio che le dispensa antidolorifico 24 ore su 24. La sua angio a una gamba ha preso i nervi e il dolore sarebbe altrimenti intollerabile. Lavora, ma l'azienda ha dovuto darle altre mansioni. E' qui a Garbagnate per un controllo.
Alba studia medicina. E' qui per accertamenti, ma speriamo e siamo convinti non sia un' angio. Quest'esperienza però l'ha segnata.
Forse ne parlerà all'Università, forse interesserà medici e professori. Diffonderà la voce.
Giuseppe, che ha l'angio a un braccio, è qui anche per capire cosa sia una 'massa' che gli si muove nel torace. Alla fine si scoprirà che è un gomitolo di vene 'morto', un circuito chiuso, non più collegato alla circolazione.
Katia diventa la mascotte del gruppo. Ha vent'anni. La mamma ha fatto con lei il viaggio della speranza trasferendosi qui da un paese dell'Est europeo, parlano un italiano dolcemente alterato.
Ha una gamba deformata dal male. Prima di Natale, subito dopo l'intervento è entrata in coma.
C'è stato un tamtam di sms e di mail anche tra i malati che non la conoscevano. Perché il coma?
E' stata un mese circa senza risvegliarsi, passando dal coma spontaneo, dovuto ad una rara infezione da sala operatoria, al coma indotto farmacologico. La conosciamo sulla sedia a rotelle. La portano in 'vasco' per la prima volta dalla riabilitazione neurologica dove stanno cercando pian piano di recuperarla. Trema e si stanca, ma parla tanto Katia. E' felice di tutti questi ragazzi che le sono intorno e le fanno festa. La mamma fatica a non piangere e si asciuga gli occhi col polso. Nei giorni successivi Katia passa sempre più tempo al terzo piano e i 'ragazzi' scendono giù a trovarla, anche mentre fa ginnastica riabilitativa.
L'ultima sera viene su a prendere una pizza con gli altri. Oggi è stata in piedi cinque minuti. Tutti le fanno i complimenti.
Mi chiamo Marinella, ho quarantotto anni e vivo ad Asti.
La mia storia di 'angio' comincia a nove anni. Il mio braccio destro era più lungo dell'altro e con troppe vene, così il medico di famiglia consigliò degli accertamenti. Presso il Policlinico di Milano feci una lunga serie di esami, ma non ne venne fuori nessuna diagnosi, solo la proposta di amputare l'avambraccio.
I miei genitori, disperati, cercarono soluzioni presso dei guaritori, spendendo dolore e denaro inutilmente.
A 22 anni dei conoscenti mi misero in contatto con un primario dell'ospedale San Paolo di Savona, specializzato in chirurgia della mano, l'unico disposto ad operarmi, che mi chiuse delle fistole e mi legò due arterie. Fu un anno difficile e, quando il professore non seppe più cosa fare per aiutarmi, mi sentii ancora una volta abbandonata, con la mia patologia senza nome.
Mi misi a girare per costosi studi privati, sempre piena di speranza e sempre delusa perché quando i professori leggevano la mia cartella clinica, dichiaravano che non c'era niente da fare.
Ero avvilita e non sapevo dove trovare aiuto, mentre i dolori aumentavano e si parlava di cancrena ed ischemia. L'ennesimo viaggio della speranza mi fece sbarcare a Nizza, in Francia, dove sottoposta nuovamente a un' angiografia, mi fu indicato l'ospedale Laborisère a Parigi.
Sperai di trovare finalmente la soluzione. Ma nonostante i ripetuti 'soggiorni' non risolsi nulla anzi l'ischemia peggiorava!
Ad Asti mi parlarono di un nuovo primario di chirurgia vascolare, e questi prese a cuore la mia situazione e fissò un intervento, ma al mattino, poco prima che entrassi in sala operatoria, ebbe l'umiltà di confessarmi d'aver studiato il mio caso tutta la notte e di non sentirsi in grado di operarmi: la rovinerei, mi disse. Si accontentò di asportarmi un'unghia, e questo riuscì intanto a procurarmi un periodo di tregua.
Conobbi così la gioia di diventare mamma, nel 1995. Ma l'angiodisplasia è crudele con le mamme e dopo solo quindici giorni i dolori alla mano si ripresentarono molto più forti. Tanto che fui costretta a interrompere l'allattamento per prendere antidolorifici adeguati. L'angiodisplasia mi divorava le dita e persi il mio compagno, non più in grado di affrontare con me le sofferenze. Non potevo badare al mio bambino, che dovetti affidare a mia madre.
Una volta ancora ripresi a cercare un medico in grado di fare qualcosa per me.
In media, chi è malato di una malattia rara, impiega circa tre anni, per giungere a una diagnosi. Io ho dovuto andare in giro per 25 anni prima di poter dare un nome alle mie sofferenze, cioè fino a quando ho conosciuto il professor Mattassi e il dottor Vaghi, che mi hanno diagnosticato l'angiodisplasia.
Avevo trentaquattro anni ormai e un figlio che per tre anni avrei visto solo un week end al mese.
La situazione ormai era degenerata, i dolori erano costanti e la mano atrofizzata. Mattassi mi ricoverò subito, ma ero un caso difficile perché ero arrivata molto tardi. Fui sottoposta a numerosi interventi, si provò anche una plastica alle dita ma ebbi un rigetto e le dita dovettero essere amputate.
Avevo bisogno di tornare a una vita normale e mi fu concessa una pausa. Sei mesi nel calore della mia casa. E un nuovo compagno. Ma l'angiodisplasia mi ricordò subito che non poteva essere proprio tutto normale e, la nuova gravidanza appena cominciata, dovette essere interrotta appena fatto il test. Immediatamente fui ricoverata per un tentativo di alcolizzazione. Ma il prezzo da pagare fu più alto: si verificò un'ischemia e la mano mi fu amputata.
Rimasi addormentata per una settimana, sotto dosi massicce di morfina, per prevenire l'effetto doloroso dell''arto fantasma'.
Dicono che sono una bella ragazza, alta, con i capelli color oro lunghi e lisci. Sembro, e forse sono, forte e coraggiosa E come fai altrimenti? Ma non è facile accettare il vuoto là dove la manica finisce.
Un vuoto che duole e non si cicatrizza, che ha bisogno di medicazioni e medicazioni. Un vuoto che ti senti nel cervello e nel cuore e allontana da te le persone che ami. Come il mio nuovo compagno. Che ti fa sentire addirittura in colpa, per un figlio che non riesci a crescere e devi affidare ad altri, cioè i tuoi genitori, convinta di pesargli, per un figlio che pensi di aver abbandonato e al quale credi di aver sottratto il padre. Ti senti in colpa quando vedi in lui insorgere tic nervosi che lo costringono a cure neuropsichiatriche.
Ma forse è vero che sono una donna forte, perché ho ripreso in mano la mia vita. Mi sono resa indipendente e mi sono creata la mia famiglia:siamo noi due, mio figlio, che adoro, ed io.
Il reparto di Chirurgia Vascolare diretto dal professor Mattassi, il Belov del Salvini di Garbagnate Milanese è diventato il mio riferimento. Per sei anni dopo quel periodo così duro, sono stata seguita con controlli periodici, con la caposala che mi contattava puntualmente ogni anno.
Nel 2006 è ricominciata. L'angiodisplasia era avanzata a tal punto che al Belov son dovuti intervenire sull'avambraccio. Un intervento massiccio che ha richiesto successivamente un lungo periodo per riprendermi, tale era la debilitazione.
Dopo due anni altre sei embolizzazioni e due ulcere con cui convivere! Così un su e giù tra Asti e Garbagnate per continue medicazioni.
Ma non c'è tregua: qualche giorno fa un'emorragia. Il sangue zampillava sotto gli occhi impietriti dei miei genitori e di mio figlio, che era sgomento: devi essere forte, gli ho detto. Se lo sopporto io devi saperlo affrontare anche tu! Ho chiamato io stessa il 118 dopo aver raggiunto al telefono il chirurgo, che mi ha risposto dalla sala operatoria, ed ho anche confortato gli operatori dell'ambulanza, assolutamente incompetenti di fronte alla'angiodisplasia.
Non so se oggi sarei qui a raccontare di me se la risposta del chirurgo non fosse stata così pronta.
Ora sono ancora in reparto dove il primo tentativo è stata un'alcolizzazione.
Mi sento fortunata a trovarmi tra persone che mi capiscono e mi vogliono bene. Qui, in questo reparto, ho scoperto il dono prezioso del sorriso nella sofferenza: i miei amici sono i medici e le infermiere, gli altri malati di angio come me. Finalmente non mi sento più sola dopo tanto abbandono. So che lottiamo insieme e insieme sappiamo scherzare e confortarci a vicenda.
E' qui, il Belov 3° piano chirurgia vascolare del Salvini a Garbagnate Milanese il rifugio di noi di 'angio', il nostro mondo a parte, come se il filo spinato lo separasse dal mondo fuori, che può essere tanto vuoto e sciocco e freddo.